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Due recensioni allo spettacolo "Cafone!", scritto da Antonella Cilento, con e per Gea Martire, andato in scena lo scorso aprile a Napoli.

 

Ilaria Bonadies, Quarta parete

“Cafone!”, storia di una brigantessa e del destino di un popolo

Al TIN, Antonella Cilento indaga sul fenomeno del brigantaggio femminile scrivendo un elogio alle donne a cui Gea Martire dà corpo con veridicità.

Quando la forza delle parole, scritte e immaginate, trova voce nella interpretazione di una attrice che regala loro suono, profondità, vibrato per raccontare la storia di una donna brigante, Filomena Pennacchio, che alle epoca dell’Unità di Italia scelse di non essere “donna” secondo l’immagine consueta, e allora si sta assistendo allo spettacolo Cafone! di Antonella Cilento, con e per Gea Martire. Tre le protagoniste dello spettacolo andato in scena ieri sera, in prima nazionale, al Tin – Teatro Instabile di Napoli: perché il processo creativo di un monologo inizia da lontano. Da quando una scrittrice appassionata, nel ricostruire la Storia, la gente, nello scandagliare gli animi ed immaginarne i pensieri, in bilico tra fantasia e realtà, sceglie di raccontare il mondo del brigantaggio, dal punto di vista femminile, quello delle brigantesse, appunto, che decisero di rifugiarsi nei boschi per sfuggire all’esercito piemontese, imparando a difendersi ed anche uccidere. Segue, poi, il momento in cui quella drammaturgia redatta minuziosamente, in cui ogni espressione, ogni gesto è stato misurato, dettagliato, probabilmente modificato più volte fino alla versione definitiva, deve prendere vita, farsi corpo, volto, espressione mimica, palpito. E allora ecco che la scelta di un a attrice quale Gea Martire diventa necessaria: sulla scena occupata solo da una piccola panca, parlando ad un invisibile gendarme non meglio identificato, sporca in viso, i capelli arruffati e le vesti logore, l’attrice riempie lo spazio in ogni sua dimensione; e lo fa non solo muovendosi, ballando, buttandosi a terra, ma anche con l’impeto del racconto, con la veemenza conferita ad ogni battuta, con la passione con la quale riporta a nuova vita ogni stato d’animo che attraversa. Vivendo ogni attimo di quello che sta interpretando, regalando al personaggio la propria fatica, la propria bravura, il proprio impegno, sudato e affannato, nel significato letterale del termine. Infine, c’è lei: la brigantessa. Filomena detta “ ‘a fuchera”, compagna del capobanda Cosimo Schiavone, sorella della giovane Enzina uccisa dal fidanzato geloso e da lei vendicata col sangue con l’esito, da quel momento in poi, di doversi nascondere nelle foreste sannite e darsi alla macchia. Donna che ha deciso di “indossare i pantaloni”, che ha deciso di combattere per la propria libertà ed indipendenza, coraggiosa e impavida, Filomena ha rinunciato ad essere madre per ben tre volte, ed i suoi modi di fare sono maschili, rudi, ma risoluti. Così come le sue convinzioni su quello che è e sarà l’Unità d’Italia, sugli effetti che porterà, su quale sia la giusta parte dalla quale stare: il re borbonico, contro il nuovo governo italiano. Figlia della miseria, dell’ignoranza, della sofferenza, ella rivendica un nuovo ruolo per le donne, non resta a guardare, ma si fa promotrice essa stessa di un cambiamento che si prospetta incerto e che solo una analisi successiva avrebbe potuto giudicare con maggiore lucidità, sebbene giusto e sbagliato siano classificazioni, tutt’oggi, non utilizzabili per spiegare il fenomeno di quegli anni. Più che le ragioni che la spinsero ad intraprendere la vita che condusse, pertanto, ciò che appare si sia voluto sottolineare nel raccontare la sua storia, è la sua immagine di donna «sognatrice, fattiva, arrabbiata», come si legge nelle note di regia: una donna non succube del marito, dei condizionamenti esterni, ma artefice del suo destino, responsabile delle sue scelte e decisioni. Una donna in cui molte donne di oggi si potrebbero riconoscere per gli ideali inseguiti, per gli affetti protetti, per lo spirito di gruppo ed appartenenza difeso coi denti e con le unghie anche se in cambio, sull’altro piatto della bilancia, a fare da contrappeso, ci sarebbe una importante posta in gioco come, nel caso della Pennacchio, la libertà, la fine della prigionia in carcere e delle torture inflitte. Applausi, segno di successo, a chiudere la rappresentazione e ringraziare le “tre donne” che una sorridente (e saltellante di gioia) Gea Martire tutte racchiude e rappresenta al centro del palco.

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Diletta Capissi, Il Denaro

'A fuchera di Gea Martire

La forza delle parole e dell’interpretazione dell’attrice Gea Martire rianimano il personaggio di Filomena Pennacchio, detta ‘a fuchera”, figura storica del brigantaggio meridionale all’epoca dell’Unità di Italia, nello spettacolo “Cafone!”  scritto da Antonella Cilento, in scena con successo per tre sere al TIN – Teatro Instabile di Napoli, in Vico Fico al Purgatorio. Gea Martire è un’attrice poliedrica e versatile, alterna teatro e cinema (è recente la sua partecipazione nel film Magnifica Presenza di Ferzan Opzetek), riesce a cogliere le tante sfumature di Filomena, una donna non consueta che decise di rifugiarsi nei boschi per sfuggire all’esercito piemontese, imparando a difendersi ma anche ad uccidere. Le parole diventano un’arma tagliente che sfidano un immaginario gendarme con il quale ingaggia una vera e propria battaglia ideologica sulle condizioni dei contadini, del meridione, sui piemontesi, su Garibaldi. Il monologo è coinvolgente, vibrante, Gea Martire è sulla scena occupata solo da una piccola panca, si cala totalmente nel personaggio di Filomena detta “a fuchera” con il suo carattere impetuoso: sporca in viso, capelli arruffati, vesti logore, in una sorta di realismo e di partecipazione il più minuzioso possibile e vicino alla dimensione di quei tempi e di quella vita. La Cilento le fornisce tutti gli ingredienti storici e narrativi del personaggio e l’attrice restituisce al pubblico una immagine di una donna combattiva, non indulgente verso quella storia di espropriazione nei confronti del Meridione, è dolorosa, passionale e ironica nel contempo. E’ tutto questo Gea Martire sulla scena, in un monologo intenso e palpitante, balla, si srotola le vesti in un accattivante gioco di seduzione come ultimo anelito per manifestare quella femminilità repressa ma anche per prendersi gioco di quel potere dominante che non sente e non vede le ingiustizie raccontate, tra fantasia e realtà. Applausi a scena aperta per una saltellante e brava interprete: Gea Martire.

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